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Storia di Luciano Bianciardi e del tormentato viaggio dalla “sua” cara Grosseto, da lui ribattezzata “Kansas City, a Milano, da cui non fece più ritorno. Insegnante, giornalista, direttore di biblioteca, scrittore, traduttore: Luciano Bianciardi, ovvero uno dei più illustri intellettuali mai espressi dalla terra di Maremma...

Da “KANSAS CITY” a MILANO, SENZA RITORNO...

"LA MIA CITTA', PICCOLA SEMPRE, era più piccola ancora, e stava quasi tutta dentro le vecchie mura”. Ecco Grosseto nella descrizione di Luciano Bianciardi, che in quella piccola città nacque il 14 dicembre 1922. La sua vita scorreva regolare, scandita dalle attività quotidiane. La scuola, sotto la guida attenta e severa della mamma-maestra che pretese, e ottenne, che Luciano fosse il primo della classe; le lezioni di violoncello, le fughe con gli amici, la domenica, per fare il bagno nell’Ombrone, “il più bel fiume del mondo, se non ricordo male”. Le bande di ragazzini scatenati, le gite al mare, tutti in pineta a far la “guerra” con le pigne.
Poi la guerra ci fu davvero.

Nel luglio 1943 Bianciardi, che si trovava in Puglia, si trovò coinvolto in prima persona nel bombardamento di Foggia, e fece parte della squadra addetta al recupero dei cadaveri: il primo, violento impatto con la morte. E l’alcool, acquistato con una colletta, da passare su viso e mani.

Le lunghe sere a parlare, il Natale coi fichi secchi. Nel settembre del 1945 il ritorno a Grosseto. La piccola città si stava espandendo, divorando abbondanti porzioni di campagna, e diventava “la città tutta periferia, aperta ai venti ed ai forestieri, fatta di gente di tutti i paesi”. Un giovane tenente dell’esercito americano la trovò molto simile al posto da cui proveniva, e da allora Grosseto, per Bianciardi e gli amici, divenne Kansas City, la provincia rassicurante, ma pulsante di vita e di voglia di “ricominciare tutto daccapo”, osservatorio privilegiato del comportamento di una società viva e produttiva. Non come Roma, parassitaria e maligna, o Milano, fredda e lontana, lassù, “vicino alla Svizzera”.

Ripresi gli studi all’Università di Pisa, nel 1947 conosce Adria, “la figlia della cappellaia”, una ragazza che a malapena aveva conseguito la licenza elementare e che la madre-maestra considerò “impossibile” per quel figlio, ottimo studente di belle speranze.

Lui invece la trovò buona e onesta, doti rare tra le “ragazze istruite” e così “sebbene non abbia per lei la famosa cotta” decise di sposarla.

Si laureò in fretta, nel febbraio 1948, e in aprile fu celebrato il matrimonio. Intanto iniziò la sua carriera: insegnante di inglese e professore di storia e filosofia, prima a Orbetello e poi a Grosseto, nel suo liceo. Cominciava a integrarsi e sicuramente fece contento il babbo, cassiere di banca, che negli anni della giovinezza lo aveva più volte ammonito: “ Non pensare a queste cose, amico, pensa alla famiglia”.

Nel 1949 nacque il primo figlio. Nel 1951 accettò l’incarico offertogli dal comune e divenne direttore della biblioteca Chelliana, decisamente malmessa dopo i bombardamenti e l’alluvione. Quello fu il più bel periodo della sua vita: c’era molto da lavorare per strappare i libri al fango che li aveva sommersi, per caricarli sul “Bibliobus”, una vera biblioteca ambulante, con cui una volta alla settimana girava per i paesi della provincia, per portare la cultura dove la cultura non era mai arrivata. Poi c’era da organizzare il Cineforum, con le rassegne di film, a volte improbabili, e i relativi dibattiti.

Erano gli anni delle prime collaborazioni giornalistiche, del sodalizio con Cassola, dell’incontro con i minatori e dello scontro con una realtà sociale ed economica ancora malata: i contadini reclamavano, e occupavano, la terra, mentre altri lavoratori, sotto terra, lottavano contro lo sfruttamento del cottimo, e contro lo spettro del licenziamento.

Nel 1954, dopo l’incidente alla miniera di Ribolla, qualcosa esplose anche nella mente e nel cuore dello scrittore.

All’improvviso tutto gli sembrò inutile, inconsistente. Il suo mondo gli apparve di colpo stretto, soffocante e si affacciò prepotente l’idea di andarsene via da tutto e da tutti: via dalla biblioteca, dagli amici, dalla famiglia, via da Grosseto.

Intanto aveva ripreso a incontrarsi con Maria, la giovane donna conosciuta nel ’53 e con la quale avrebbe condiviso gli anni a venire.

Per un po’ la sua vita si sdoppiò: a Grosseto con la famiglia, a Roma con Maria, combattuto tra la voglia di nuovo che lo spingeva a partire e la forza della stabilità che lo tratteneva. L’invito a Milano, per prendere parte a una “grossa iniziativa”, fu provvidenziale per vincere le sue esitazioni: nell’estate del 1954 partì in treno, lasciandosi alle spalle la sua Kansas City, la città aperta ai venti e ai forestieri. Solo che questa volta i venti soffiavano verso nord, e là sarebbe stato lui il forestiero. “Ecco fatto”. Il grande passo era compiuto.

L’impatto con Milano fu forte, e forte la tentazione di tornare indietro. Ma non lo fece. Anzi, si rimboccò le maniche e si dedicò con impegno alla nuova attività di traduttore. Dopo un periodo faticoso, nella stanzetta di una modesta pensione, con montagne di pagine da tradurre, tante cartelle per una bolletta, tante per la spesa giornaliera, il lavoro cominciò a ingranare. Iniziò a guadagnare bene, la cameretta lasciò il posto a una vera casa e al suo fianco c’era Maria.

La sua opera di traduttore fu intensa e numerose le collaborazioni giornalistiche. Altrettanto prolifica la sua produzione letteraria: romanzi, racconti, saggi storici. Col suo romanzo più noto, “La vita agra”, Bianciardi diventò famoso. La situazione divenne grottesca, perché questo romanzo, scritto con rabbia e per offendere, per denunciare una realtà tragica, fu accolto positivamente dalla critica e dal pubblico, e finì per incastrare l’autore in quell’ingranaggio a cui cercava di sottrarsi, compresi gli inviti nei salotti, le interviste, la falsità dei salamelecchi. Il termine “agro” fece tendenza fra gli intellettuali e i professionisti. Fino a che fu lui a risultare fuori luogo, col suo sarcasmo e la sua acutezza, col suo “far finta di essere anarchico”.

Milano non lo capiva, e lui continuò a non accettarla.

Quella che da lontano sembrava il simbolo del progresso, del miracolo economico, della modernità finì per apparirgli sempre più come la città del lavoro alienante, dell’indifferenza, della negazione dell’umanità, della disperazione. Una città depressa, tutto sommato. Una città che gli somigliava. E il rimorso di aver lasciato la Maremma e Grosseto si fece acuto e lacerante, e sempre più spesso cercò nel bere il conforto che il successo non sapeva dargli.

La sua vita si spense nel 1971, lontano da dove era iniziata e da dove era fuggito anni prima, senza un perché e senza dargli il tempo di restituire quello che si era portato via.